La maternità rappresenta uno dei periodi più belli nella vita di una donna, ma non tutte le lavoratrici hanno la possibilità di goderne in toto.
Diverse donne subiscono ancora discriminazioni durante, ma soprattutto dopo la gravidanza. Una volta tornate al lavoro, in alcuni casi, vengono considerate erroneamente “improduttive” dai datori o un ostacolo al continuum lavorativo dai colleghi. E vengono messe alla prova, come se dovessero dimostrare che si può essere mamme e professioniste al tempo stesso.
Nella maggior parte dei casi, questa discriminazione viene messa in atto in maniera inconsapevole e sottile, e finisce non appena la lavoratrice dimostra di essere “quella di una volta” e di riuscire a conciliare i nuovi impegni con gli orari e i carichi di lavoro. Altre volte però si tratta di un vero e proprio mobbing strategico al fine di indurre la lavoratrice, psicologicamente provata, a dare le dimissioni.
La legge, però, interviene in difesa delle neo-mamme. Esiste, infatti, una normativa che protegge e tutela le lavoratrici demansionate o licenziate in gravidanza o in maternità: l’art. 56 D.Lgs. n. 151/2001 che tutela e sostiene non solo la maternità, ma anche la paternità. Vediamo come.
- Licenziamento in caso di gravidanza
Non si può avviare una procedura di licenziamento dall’inizio del periodo di gravidanza (300 giorni prima della data presunta del parto) fino al termine del congedo di maternità o fino a 1 anno di età del bambino.
Le eccezioni previste sono:
- Una giusta causa di licenziamento della lavoratrice a prescindere dal suo status.
- La cessazione dell’attività.
- La fine del contratto a tempo.
- L’esito negativo del periodo di prova. La lavoratrice in maternità è tutelata anche dal licenziamento collettivo o dalla sospensione (unica eccezione la sospensione dell’attività dell’azienda o del reparto).In tutti gli altri casi la legge prevede che le lavoratrici che subiscano un licenziamento discriminatorio debbano essere obbligatoriamente reintegrate.
- Demansionamento in caso di gravidanza
Tra i comportamenti vessatori rientra anche il demansionamento, che rappresenta una forma di discriminazione diretta, Vediamo con quali modalità può essere messo in atto.
- La non corretta riallocazione.
- La minaccia di un trasferimento.
- L’assegnazione di turni incompatibili con la condizione di madre.
Ci sono, però, obblighi di legge che tutelano le donne in tal senso. Il cambio di mansione è previsto solo nel rispetto di questi criteri:
- – all’interno della stessa unità produttiva o nello stesso comune;
- – se consente di occuparsi della mansione svolta in precedenza o di una equivalente (sicuramente non inferiore).
Come difendersi?
In primo luogo conoscendo i propri diritti. Non solo la vittima del mobbing ha il diritto di difendersi, ma anche la possibilità di appoggiarsi a sportelli o centri pubblici antimobbing sul territorio o fare riferimento a “L’Osservatorio Nazionale Mobbing-Bossing”. Queste strutture aiutano la lavoratrice a reagire, innanzitutto psicologicamente e, se necessario, anche legalmente.
Si possono infatti impugnare i provvedimenti datoriali illegittimi, ma i casi che si trasformano in effettive denunce sono pochissimi. La maggior parte delle lavoratrici madri vittime di mobbing preferisce arrendersi, pur di non affrontare lunghi processi o subire estenuanti duelli psicologici.
Nonostante le tutele normative, dimostrare il mobbing, non è tuttavia semplice: l’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice, in una situazione in cui quasi tutto si gioca sul piano psicologico. Per chi volesse approfondire l’argomento dal punto di vista tecnico e normativo, rimandiamo al link Inps dedicato.
Negli ultimi anni, però, la maternità ha acquisito un significato differente anche in ambito lavorativo. Questa esperienza straordinaria permette, infatti, alle donne di sviluppare competenze trasversali che si rivelano un valore aggiunto anche sul lavoro.
Ora è il momento di vedere le offerte del giorno. Sei pronto?