Viviamo nella società delle performance, e su questo non c’è dubbio. Ma per chi performiamo? Poche volte per noi stessi, tante volte per gli altri. Chi prendiamo come termine di paragone per valutare le nostre performance e il nostro percorso? Tante volte gli altri, poche volte noi stessi e il nostro punto di partenza.
L’apertura nei confronti del mondo intero, avvenuta grazie ai media e poi ai social network, diventati oggi strumento accessibile a tutti fin dalla giovane età, ha esasperato tante volte il confronto con altri individui che mostrano le loro performance (spesso non oggettive). Sta poi alla nostra discrezione il saper ponderare quello che vediamo, contestualizzare, ridimensionare.
Tutto ciò che appare sui social – stili di vita esosi, vite perfette e lineari – si ricollega al mondo del lavoro: “Ma io quanto lavoro? Non ho mai tempo per fare nient’altro!” “Non guadagno abbastanza per poter fare anche io questo e quell’altro”. “Il mio lavoro sembra noioso confrontato a (…)”, e via dicendo.
Facciamo un passo indietro
Quando ci misuriamo, è fondamentale contestualizzare l’intorno realistico che ci circonda. È importante considerare sempre il proprio punto di partenza: chi ero io? Chi sono oggi? Da che famiglia provengo? Quali sono stati i miei incidenti di percorso? Qual è il mio stile di apprendimento: teorico o pratico? E quindi, che tipologia di lavoro mi si addice? Sono stato in grado di individuarlo? Quali sono i miei tratti caratteriali originari?
Una volta chiaro e solido il contesto, focalizziamoci sui nostri obiettivi e sulle nostre priorità lasciando silente tutto il resto del mondo. E allora mi chiedo: cosa mi soddisfa? Qual è la mia visione della felicità? Che tenore di vita voglio realmente condurre? Cosa mi basta e cosa non mi basta?
Questa centratura, che considera sé stessi come unico metro di paragone, serve a umanizzare la performance. Una volta che saremo consapevoli di essere umani – e quindi fallibili – saremo forse più sereni anche nell’accettare un fallimento e nel poterlo raccontare.
La famosissima scrittrice J.K. Rowling lo ha sperimentato sulla sua pelle, e a séguito delle sue esperienze ha detto: “è impossibile vivere senza aver fallito in qualcosa, a meno che non si viva così cautamente da non vivere per nulla, nel qual caso, il fallimento è implicito.”
Se ci mettiamo in ottica di costruzione, prenderemo ogni occasione come momento di apprendimento: scuola e università, esperienze di vita positive e negative, relazioni, esperienze di lavoro; possiamo perfino fare “tesoro” del fallimento di altri.
Il fatto in sé, l’accaduto, è oggettivo. Cosa fa la differenza? L’atteggiamento con cui si reagisce al fatto. A seguito di un’esperienza, è fondamentale porsi sempre le seguenti domande: da qui, cosa posso imparare? Cosa posso fare meglio la prossima volta? Cosa mi ha insegnato? Il fallimento diventa così un monito a fare meglio, a usare diversamente le proprie risorse.
L’evoluzione nasce anche dal fallimento: man mano che imparo, lascio inespressi quei “tratti” che fanno fallire, li modifico o faccio prevalere tecniche diverse, per emergere e avere successo.
Mi prendo quindi la responsabilità dell’accaduto: delle azioni, delle conseguenze, degli atteggiamenti. Ci sono sicuramente cause esterne non controllabili direttamente, ma per tutto il resto è fondamentale riconoscersi responsabili delle proprie azioni, per poter essere coscienti del fatto che il proprio operato porta a delle conseguenze e, quindi, cambiare porterà a ottenere un risultato diverso.
Quindi, come lo racconto?
Bisogna sicuramente assorbire, fare proprio il culto del fallimento come occasione, crederci ed essere convinti che anche un “non di successo” abbia delle potenzialità.
Procediamo con il riordinare le idee, imbastiamo poi uno storytelling chiaro e conciso, che evidenzi il nesso causa-effetto e che evidenzi il contesto, i fattori fondamentali, gli attori coinvolti, l’iniziale scopo che non è stato raggiunto, come mai non c’è stato il successo, la reazione iniziale, il percorso eventuale di trasformazione della propria visione, ciò che “ci si porta a casa”, i cosiddetti “take aways”: cosa ho imparato? Cosa farò diversamente la prossima volta?
Trasmettere la propria esperienza, umanamente, senza timore, dovrebbe essere normale, in quanto il fallimento fa parte di qualsiasi percorso di vita. Ognuno ha le proprie sconfitte, la differenza sta in come si affronta un “ordinario” incidente di percorso.